The Project Gutenberg eBook of Homo, by Giovanni Cena.
The Project Gutenberg EBook of Homo, by Giovanni Cena
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Title: Homo
Author: Giovanni Cena
Illustrator: Leonardo Bistolfi
Release Date: January 25, 2016 [EBook #51036]
Language: Italian
Character set encoding: UTF-8
*** START OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK HOMO ***
Produced by Carlo Traverso, Gianfranco De Robertis and the
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4.—BIBLIOTECA DELLA NUOVA ANTOLOGIA ✻
Giovanni Cena
HOMO
CON UNA COMPOSIZIONE ORIGINALE
DI
LEONARDO BISTOLFI
ROMA NUOVA ANTOLOGIA
Dello stesso Autore.
Madre.—Poemetto, con prefazione di Arturo Graf
e con acquaforte di Leonardo Bistolfi. Torino,
Streglio, 1897 (Esaurito). L. 1.50.
Id.—2ª edizione riveduta, con nuovo disegno di Leonardo
Bistolfi. Torino, Streglio, 1899. L. 1.
In Umbra.—Versi. Torino, Streglio, 1899. L. 2.50.
Gli Ammonitori.—Romanzo. Biblioteca della
Nuova Antologia, Roma. L. 2.50.
Il sole è sceso. Ritta in mezzo al prato la bimba guarda ed il timor la tenta. Dov'è il villaggio? Ahimè, lungi! E s'avventa nella strada, correndo a perdifiato.
Dietro i piccoli passi scende lenta l'ombra, con ali umide come fiato: movonsi i tronchi minacciosi a lato e la vita dell'ombra la spaventa.
Quand'ecco un grido giunge. Infine. Mamma! Oh la casa custode e le vivande, e vincitrice del terror la fiamma!
Ma tace e inarca i cigli, mentre inghiotte il suo pane. Chè il mondo è grande grande... ed ha veduto scendere la Notte!
Lo scolaretto spiega ai bimbi intenti come la terra è al par d'un pomo tonda; intorno intorno l'acqua la circonda, sbocciano in mezzo isole, continenti.
Gira, come la pietra della fionda, intorno al sole, e gli altri parimenti, Marte, e quel dell'anello e i rimanenti... La luna intorno a noi fa la sua ronda.
Il nonno ascolta e sta meditabondo, chè, bimbo, ha vïaggiato, vai e vai, col suo babbo, lontano, per il pane.
Vai che ti vai... «Ma, babbo, o che rimane molto?»—«No, poco». E non finiva mai... Quand'ecco il mare: «Là, finisce il mondo!»
Come i fanciulli guardano morire! Spiano intenti senza batter ciglio... Dov'è la morte? Da qual nascondiglio nei bianchi letti insinua le spire?
Non era un mostro, vedon poi. Fuggire non vale: è in noi. Non v'è miglior consiglio che attendere che parta il padre, il figlio... Di quante bare è nero l'avvenire!
Or dov'è quegli che passò le porte ieri? Vuoto è il suo posto. Alcun s'illude d'un suo ritorno? E un altro, ecco, scompare.
Temuta, accetta, desïata morte! S'agita un piccol vortice, ed il mare della vita sui morti si richiude...
La bimba che ti rinverdì la fronda quando agitavi i rami inariditi nel vuoto oscuro e coi primi vagiti ti radicò nella terra feconda,
tiene il mondo nei chiari occhi stupiti che furon tuoi: la tua pietà seconda la visïon che in quelli si profonda e il mister che le volge i primi inviti.
Già la fronte è pensosa e i sensi attenti, e l'anima ch'è desta il cielo esplora, ieri apparso a mostrarle un gran viaggio.
E nulla è più divino che il miraggio azzurro onde s'imprime e si colora l'universo negli occhi adolescenti.
Nel tramonto di maggio, pensierosa la bimba siede in mezzo a' suoi balocchi: accanto a lei l'amico suo riposa, stanco di corse, languido i ginocchi.
L'un guarda l'altra sottecchi e non osa, con nuovo senso, d'incontrarne gli occhi: qualcosa par che in essi entri, qualcosa di nuovo e dolce e li inondi e trabocchi.
E d'intorno la vita vegetale opprime, esalta i due cuori piccini... Occhi, incrociate le vostre promesse!
E le due vite che Natura espresse fin qui distinte, accostano i destini nella loro unïone originale.
Memore il giorno stai nel tuo candore, fosco la notte in gioie e pianti immerso, letto, dove gli amanti cuor su cuore naufragan nell'oblìo dell'universo;
dove la madre stringe il bimbo emerso da le fiamme del suo lungo dolore; dove il fanciullo si rivolge verso la notte, il vecchio verso il sole e muore.
Gli efimeri così lor geniture, loro agonie vicendano col lume dei giorni e appena un crepitìo ne vibra.
Mentre la Morte su di te si libra, instancabile smuove le tue piume la Vita per le nascite venture.
Cresceano i bimbi intorno ai patriarchi come grappoli vivi e fra' tumulti de' giovanili giochi, udivan parchi ammonimenti di virtù gli adulti.
Or te compiango, o vecchio, che t'inarchi verso la terra, e non hai chi t'occulti il vuoto verso cui solingo varchi e del passaggio tuo pianga od esulti!
Dov'è l'amore che comprasti? Tace. Passa la giovinezza e con malvagia letizia irride a la tua faccia tinta.
Chè solo augusta è la vecchiezza cinta d'opere e di memorie, che s'adagia benedicendo nell'eterna pace.
Gloria a colui che visse a lungo e spare verso l'alto! S'indugia su le fronti ardue la vita, come il sol sui monti: più bello il volto del domani appare.
Dono grande agli umani il contemplare i puri eroi, così labili, pronti a vaporare fuor da gli orizzonti terrestri a la serenità stellare!
Da la vedetta de' loro anni han scorto di quanta illusïon fatto è il dolore, di quanto amore la felicità.
Dicono: «Amate! Altro non v'ha conforto d'esser vissuti che veder migliore a la vita salir l'umanità».
Enigma della morte! È come un'onda dell'atmosfera eterna. Ed un mortale, investito, sparì. Quando trasale il cuor tuo, già la morte è a l'altra sponda.
In questa allor tu guardi. Ogni gioconda forma o sembianza ha un che di sepolcrale. E il suo respiro è sì fievole! Sale come una bolla... Oggi, domani affonda.
(E v'ha chi uccide! e chi ciò giusto chiama!) Tu guardi, ascolti, e ai morti anche domandi perchè... Non domandare, uomo, prosegui.
Vivi! La vita in te, negli uomini ama, vita che tieni, vita che tramandi; che ognor più splende mentre tu dilegui!
«Moriam!» L'amante disse ebro all'amante unendo in un pensiero amore e morte. Ella rispose, e l'abbracciò più forte: «Cominciata è la vita in questo istante».
Di là più nulla esiste, oltre le porte della vita, più nulla ove il sembiante dell'amato si serbi a l'aspettante... Lodiam la nostra umanità consorte!
Esaltiamo la vita! I nostri sensi siano la zolla che assorba e maturi i germi, e in sangue, in palpiti li addensi.
E il cuor s'imbeva de' dolori oscuri degli uomini e li infiammi e ne dispensi raggi d'amore ai prossimi e ai venturi!
Tuo forse il sole, e l'aria cogl'incensi delle zolle fruttifere, e i viventi onde assorbi la vita, e gli elementi che nel tuo sangue per brev'ora addensi?
Tuo quel che vedi e ascolti? Obbedïenti al tuo voler perennemente i sensi? tuo quel che fai, che imagini, che pensi? Tu stesso t'appartieni?... No. Lo senti.
No! Perchè nel suo cerchio un amor, cieco come il vento dei pollini, vi chiuse, tu chiami tua la umana creatura!
Nulla è tuo! Fuorchè l'attimo che seco la volontà dell'Essere vi fuse per trar di voi l'umanità futura.
Non indugiarti. Il cuor non sosta; avanza come gli anni e la morte. Ah se tu poni la tua vita in un essere, e imprigioni te stesso in un dolor senza speranza!
Dónati e chiedi: s'altri non ti doni, non hai dentro te stesso un'abbondanza essenzïale onde la tua sostanza si mesce al mondo in intime unïoni?
Tu sei quegli che passa: a te daccanto infelice chi viene a lungo e porta il peso enorme de' tuoi desiderî!
Più d'un cuore t'amò forse quand'eri già passato. Così, morto,—che importa?— anche l'Uom t'amerà non senza pianto.
Io la scopersi e la chiamai Sibilla. Come ognun disamò lei giovinetta, e a secolari tirannie soggetta, emerse, quale un fiore da l'argilla,
mi disse. Or io la trassi su la vetta ove il tumulto uman perspicuo brilla nello spazio e nel tempo. Ella tranquilla contempla e dice, e l'Essere le detta.
L'agile capo e la capigliatura attorta e tutta la persona bella vibrano sotto un soffio ignoto e vivo.
Ed io, già dubitante, credo e scrivo. Io non son che la sua buona novella. Palpita in lei l'umanità futura.
Talor sussulto, mentre mi addormento sul seno tuo: mentre mi culla il molle respiro, odo il tuo cuore, odo le polle del tuo sangue pulsare: e n'ho sgomento.
Sotto un tessuto come di corolle tepide un lavorio profondo sento, incessante e sì fragile! Un momento di silenzio... e mi assale un terror folle!
L'anima tua risplende in me: viviamo oltre l'ora, per sempre; ed un amplesso delle tue braccia risuggella il patto.
Ma il corpo tuo tu non possiedi. A un tratto la morte lo nasconde, e te con esso tutta, e la vita mia che per te amo.
Corpi, ove corse il nostro sangue, donde questo respiro abbiam, breve e tenace! Corpi non nati, ove trarrà per onde sempre più vaste il nostro cuor vivace!
E quello dolce sì per cui mi piace questo mio stesso e al mio l'amor confonde, che meco trar vorrei fino a la Pace, fino al gran Cuor che tutto assorbe, effonde!
Splendete, belle forme, o voci e sguardi e nei trasalimenti intimi essenza suscitatrice della vita nova!
La morte è ovunque. In noi l'insidia cova, ci sovrasta la bruta vïolenza. Ogni istante è supremo. O Vita, ardi!
L'orfano udì nel sonno uno scalpiccio vicino. Eran le gocce delle gronde? Chiama: «Nonno!» Le tenebre profonde gli riempiono il cuor di raccapriccio.
«Prendimi teco!» E come non risponde quegli, sì pronto ad ogni suo capriccio, sale, con occhi chiusi, il pagliericcio del nonno e tra le coltri si nasconde.
Si rannicchia tremando accanto al nonno. L'altre volte dicea questi: «Che hai?» e pur nel sonno lo traeva in braccio.
Lo scuote: nulla. È freddo come il ghiaccio. Lascia che dorma, bimbo; tu non sai quanto sonno lo tiene, quanto sonno!
Appena vivo il bimbo piange forte tastando, come un rondinino cieco, su la fanciulla, che con occhio bieco guarda l'ignaro nato per sua morte.
Vivere? Anch'egli avrà la mala sorte, nudi e traditi entrambi. Ah, muoia seco! Già lontana è la vita... N'ode l'eco fievole, fuori, oltre le chiuse porte.
Chiuse le porte e oscure. Sul braciere ondula a tratti un'azzurrina fiamma. Esausto il seno e il bimbo cerca, tenta...
Oh che peso sul petto! L'ombre nere premono... Il bimbo tace: su la mamma, da poco desto, si riaddormenta.
Usciva da la scuola, per molt'ore immoto e col pensier vagante in caccia di sogni alati, e dentro l'ombra diaccia sentiva aulire tutto il maggio in cuore.
Nella strada fra 'l giovenil clamore un motto ardente gli avvampò la faccia; un sorriso lo avvinse; e con terrore si mise dietro a l'odorosa traccia.
Così l'impura dispogliò l'ignaro de' suoi tesori, come un giovin fusto di sue tenere gemme appena schiuse.
E nella giovine anima s'infuse della coppa d'amor tutto l'amaro e in fondo inoblïabile il disgusto.
Un altro maggio, e rinascean dai nocchi le gemme e il grano rimettea la spica, quand'ei rivide una figura amica compagna già di fole e di balocchi.
Mutati, oh quanto! Ed ella con l'antica letizia, ei con un fuoco acre negli occhi. Ed ei non puro mise a la pudica tutti i fior del suo cuore in sui ginocchi.
Un dì la giovinetta, a una parola attesa, si piegò, come nei prati fanno i narcisi sui fragili gambi.
E poi?... Oh, come allora! I baci dati, come allora, ed i gesti, ahimè! d'entrambi! E quel disgusto gli salì a la gola.
Quando lo sposo, caro a' suoi, la tenne, ella aspettava con dolce sgomento. Ma il mistero dei corpi àpresi lento... E in braccia ignote senza gioia svenne.
E ignora. Addio felicità ventenne del cuor, dei sensi, addio! Forse un momento palpiterà sotto uno sguardo intento, perchè più pesi il suo dolor perenne.
E la vil tirannia! Le membra attorte, premute, vïolate e l'infinita nausea che l'empie nelle notti orrende!
Ciò la natura ignora, nè sospende l'opera sua... Che sei, piccola vita plasmata d'odio e di pensier di morte?
Come in un raggio i due spiriti onesti luceano. Un dì lo sguardo verecondo vide quegli occhi fatti ardenti e mesti: ebbe pietà... e cadde tutto un mondo.
Si levarono entrambi, come desti da un malo sogno. Ma nitida in fondo agli occhi sta la visïone e i gesti d'entrambi, e tutto assume un che d'immondo.
Or colei che non seppe esser sorella tende le mani a un ultimo richiamo, già piene di tesori, or fatte ignude...
Oh fango! È il cielo che nella palude più caldo e intenso brilla e noi scendiamo in mezzo al fango a ricercar la stella!
«Mi vuoi, lo so, perchè non chiesi il dono di te, perchè non t'amo e tu sei bella. Ambi seguiam la nostra via, tu quella della vendetta, io quella del perdono.
Ambi figli di vittime, ci appella la stessa voce con diverso suono: tu se' colei che abbatte i forti, io sono quei che redime i vinti. Addio, sorella!»
Così disse, e la bella si raccolse come una spada nella sua guaina, micidïale a quei che ne la tolse.
L'apostolo nel turbine s'infranse che a guerra eterna uomini e dèi trascina. Su lui la cortigiana sola pianse.
È sazio, cupo, solo. Con la bruma del sonno una tristezza maliarda scende. L'ultima face par che arda sovra una bara: muor torbida e fuma.
S'accosta alla finestra. È l'alba. Guarda. Rinasce il mondo sempre? Si consuma la gioventù, la voluttà, la spuma della vita, e più nulla... Or che più tarda?
E lentamente una figura scialba ondula emersa da la nebbia rara. «Sempre più triste, a che, importuna, torni?
È troppo tardi per mutar miei giorni! è troppo tardi, o importuna e cara, che a notte affogo e che risorgi a l'alba!»
Sedeva nella stanza al buio fitto, raccapricciando. Or lento si conduce presso una porta, chiusa. Un fil di luce riga il suolo. S'appoggia immoto, ritto...
E, chiusi gli occhi, pur l'assedia un truce quadro e l'attesa come di un delitto. Un letto: un corpo umano v'è confitto... un uom dentro vi fruga e un ferro luce.
Oh dolce, dolce vittima! Oh dolore della carne che in dar la vita muore... Oh questo tempo oscuro ed infinito!
Si comprime le tempia arse... Un vagito? —«Aprite! Aprite!...»—Ecco: un viluppo informe ignudo strilla... Ella non sente. Dorme.
Quando arrossano il mare i pigri soli tra cortine di sangue, alzi i tuoi lagni, piccola ombra assetata, da gli stagni sospingendo per l'aria umida i voli;
e vagolando sopra i grigi stuoli che la fame urge ed i padron grifagni, la febbre con le molli ali accompagni, dal padre suggi e inoculi a' figlioli.
Un contatto, un ronzio rapido, e punge l'esile avviso i cuor, come di lunge voci d'oblìo sovra le fronti oppresse.
E geme ognuna come se tenesse, piccola, un peso immane. Dentro d'esse l'Ospite, immensa come l'ombra, giunge.
Montanaro, casetta mia, com'eri piccola e triste, e n'ho triste la vita: ma come al mio pensiero era infinita la traccia, intorno a te, de' tuoi sentieri!
Poi città corsi, e vidi regni e imperi e agli occhi miei la terra è impiccolita: nessun mistero in essa più m'invita: triste pur questa casa, e io son quel d'ieri.
Or se rivolgo il viso al ciel notturno, quanto sei breve, terra, e come immenso, cielo, ove miro con impazïenza!
Ma come avvien ch'io palpiti non senza dolcezza, quando a te, villaggio, penso, ultimo albergo al mio cuor taciturno?
Mentre i tuoi primi nati aprono l'ale verso terre che arridono più liete di premî e d'opre e dentro il suol natale il vecchio padre semina e non miete,
popol di vecchi e di fanciulli, quale nuova ricerca t'anima? qual sete d'esperïenze? E quando l'ideale è prossimo, ti volgi ad altre mète.
Giunto ieri fra' nuovi popoli, oltre guardi, oltre corri con crescente affanno, l'altrui vedendo più che 'l tuo dolore...
T'assistan vigilanti nella coltre del suolo sacro i padri: essi ben sanno che il destino t'elesse iniziatore.
Fanciullo senza pane e senz'amore, un giorno invano ti passò vicino: come allor lo rinneghi oggi che muore tardivo alunno di un pensier latino.
Credette essere il braccio del destino contro un tiranno, egli liberatore. Quei non era che un uomo: egli è assassino... Passarono. Nè muta ora il Dolore.
Anch'io volli trovar quei che produce il Male. Esiste? No... Ma ne ricada l'onta su ognuno ch'è saggio e felice!
Io già ti chiesi, Arte liberatrice, un metallo per fondermi una spada, or ti chiedo un metal ch'espanda luce!
Siede un ramingo innanzi ai quadri. Dorme? Qualcosa de' suoi padri è prigioniero in ogni terra: egli non è straniero ove dei padri hanno esulato l'orme.
Oasi di riposo al suo pensiero destò la vista delle belle forme. Tace. Dintorno scendono ombre a torme, ombre di antichi dallo sguardo austero.
Susurran l'ombre: «Occhio che par serbare la luce come il dïamante, mani suscitatrici d'armonie viventi!...
Oggi avvinto a la gleba fra' giumenti, d'idee latine e di beltà domani adornerai la terra arata e il mare!»
Ebbe il braccio fulmineo degli avi e il nostro cuor dal palpito profondo. V'è un genio istesso, che dal suol fecondo della patria rivive a' giorni gravi?
Eri tu certo, Ligure, che davi a un re straniero inutilmente un mondo; or, dato un tetto a un popolo errabondo, all'unïon dei popoli auguravi.
E quando sul Gianicolo balzasti, Roma sorrise a tutti gli uomini. Ere di sangue, chiuse! Aperti nuovi fasti!
Or tu, sul monte, bronzeo resti, quale della leggenda ultimo cavaliere, poi che ti colse in fronte l'Ideale.
Sparve con te la bella guerra, come meteora d'olocausto, che le madri benediceano. Ancor raggiò fra' padri boeri e sparve con le rosse chiome.
Ecco un convulso mostro, ora, che vome strage. I guerrieri ciechi, fra' lor quadri di ferro, odon venir con passi ladri, d'onde? la morte e non li chiama a nome.
Giovani, in patria producean i frutti della vita e mietevanli per tutti. Falciati, lungi, sotto ignote stelle!
Altri verranno, che la fame svelle da la lor terra, a spremere un tesoro per colui che ha mercato il sangue e l'oro!
Anch'io cercai svèllermi da la stretta delle cose e degli uomini, a la pace formidabile, a l'aer freddo che tace oltre il vento, oltre i ghiacci, oltre ogni vetta.
Piccola umana emozïon vivace, cui la più torbid'anima è soggetta! Sali, e arrancando dietro te s'affretta qualche minuta realtà seguace.
Un murmure, un frullar d'ale improvviso, un vagito, una lagrima, un sorriso; ecco fuse le note fuggitive
nel ritmo del tuo cuore, che si sente raggio nell'aria, goccia nel torrente, linfa in arterie senza fine vive...
Nascesti avvolto da le voci erranti nelle frondi e su l'acque; e tra le gole canore che opprimean talor gli schianti del tuono, emerse il tuo cantico al sole;
e quando venner meno le parole, i metalli squillarono: con quanti strumenti il mondo giubila o si duole moltiplicasti l'onda de' tuoi canti,
Uomo! Così ti levi, inno che domini l'odio; che accordi la gioia e lo strazio spiranti verso la serenità.
Così ti comporrai, coro degli uomini, cantico della terra, e nello spazio coro degli astri per l'eternità.
Il vecchio siede a lato del portone di fronte ai campi immensi e agli aratori. Ligneo, curvato a terra, par che implori mercè ch'è vivo ancora una stagione.
Non ebbe in ottant'anni che dolori, nel timor del suo dio, del suo padrone: onde pensando all'ultimo sermone si reputa il più reo dei peccatori.
Ma spera... In gioventù qualche stravizio: qualche facezia prima di sposare... Poi venne la famiglia e la saggezza,
e la miseria. Ond'egli or accarezza l'idea del Purgatorio. A peggio andare, sarà finito il giorno del Giudizio!
Ma il figlio intorno per la nebbia esplora: scorge su quella l'ombra sua gigante: questa era Dio. Poi guarda il ciel distante ove nascono mondi ad ora ad ora.
L'universo ci ignora. Il fluttuante mar dell'essere ci agita e divora, minimi nell'immenso. Forse adora la formica il calzare del passante?
Allora, mentre il padre trema e prega, «Terra, almen tu sei mia!» pianta la stiva nel suolo, e il frutto della vita afferra.
Alcuno in nome di quel Dio ci nega quel ch'è di tutti? No, fratelli. E viva, nostra comune eredità, la Terra!
Occhi miei, da quel dì che il bel sembiante che specchiaste a lo schiudervi, è dissolto, e la natura vi scoprì il suo volto, indi la donna vi sorrise amante,
quante fuggenti ombre di cose, quante femminee rapid'ombre avete accolto! Sovr'esse l'arte il suo potere ha svolto, le fece umane, ed il mistero sante.
Ma un dì vi chiuderete, ciglia, porte dell'umano spettacolo, e repente la notte v'aprirà le sue grand'ale.
E allora, o visi che passate, quale imagine su me china e dolente custodirò nelle pupille morte?
Quando l'uomo depose lo sgomento e il mondo ornò di deità fraterne, come bello moveva con le alterne ginocchia, il capo verso il firmamento!
Ma tra quelle, una orrenda, ecco, ne scerne, Javeh, l'ultimo Dio. Cadde col mento nella polvere, e in quell'atteggiamento l'effimero s'inflisse pene eterne.
Oh, risorga oggi su le membra belle l'uomo ed esalti questa sua terrena forma di vita che fomenta il sole,
e più alta la renda a la sua prole, prima che anneghi nell'aria serena ove sgorgano e spengonsi le stelle!
Un ricordo. M'avevano insegnato a temere la folgore. Nel campo sterminato ero solo. Ed ecco, un lampo guizza: lo segue un lugubre boato.
Fuggo, guardando ai gran' roveri; inciampo; salto tra' solchi, tra' fossi, inzuppato di pioggia. Ecco la strada, e infine a lato i fili telegrafici, lo scampo!
Scampo? Il destino dentro i ragnateli aerei s'impiglia sì che i teli la morte scocca sui mortali a vuoto?
La scïenza così tesse i suoi veli su noi. Guardiamo: il cielo è breve e noto... Illusïon! Dietro è il Mistero immoto!
L'albero si chinò sopra uno schianto aperto nelle sue viscere stesse quando i due rami giovinetti oppresse il soffio della morte e un giacque infranto.
E attende, il padre. Con entrambi intanto cammina: nei silenzî ode sommesse voci. Nè guarda; come se temesse fugare un'ombra che gli viene accanto.
E si desta al mattin con un singhiozzo chiuso. Perchè? Non ritornò l'assente? Pur scialbo è il sole e l'anima non paga.
Poi lo sorprende una tristezza vaga: ed ei s'ascolta, come chi repente sente il braccio doler che gli fu mozzo.
Formidabile a l'uom, Vita del mondo, con le tue vaste passïoni incombi: guizzi e scrosci coi nembi e dal profondo cuor della terra, impazïente rombi.
E, Morte, tu, vasta e repente piombi sopra un gregge d'efimeri errabondo: ancor n'udiamo i colpi e l'ecatombi copron già il suol, scendono al mare in fondo.
Qualcosa in noi rimuore a la fraterna morte. Qualcosa è in me che già passò la morte? Sopravvive e si rimembra.
Sopravvivrà? In quali umane membra od ignota compagine, non so: rivibrerà la mia sostanza eterna.
Poi che la terra i membri effusi e vani raccolse e il mar cingeva gli emisferi, ond'erompean al cielo i monti alteri e si spandean l'alluvïoni ai piani,
o coscïenza della terra, ov'eri? Il piccol uomo allor sognò titani; s'erigevan sui culmini montani, gonfiavan di lor collere i crateri.
Sognò gli dèi per debellarli, belle stirpi e ristette, contemplando quelle imagini di sè levate in guerra.
Sparvero, e l'uomo or lancia da la terra le moriture deità novelle; crede e riposa e cerca nuove stelle.
Nei campi della vita ecco un'immensa strage. Il più forte l'indifeso assale. Da la cellula a l'uom, lungo le scale della vita, l'un fa dell'altro mensa.
Ma dai fermenti che la strage addensa, più ricca balza l'energia vitale; annoda ganglî, organi tende, sale; s'accende e raggia in un cervel che pensa.
E s'una Mente alfin l'ha scorta, vana non fu la guerra; i fremiti ne ammorza, la volge a un bene ch'ella stessa ignora.
Perchè la terra ha un'anima, che implora d'eromper da le viscere a la scorza e d'integrarsi in questa anima umana!
Un anno, un giorno, un'ora... Ed anco un anno, un giorno, un'ora! Il tempo immobil dura. La lancetta procede con sicura costanza, senza sosta e senza inganno.
Con ugual legge per gli spazî vanno gli astri e ciascuno ai prossimi è misura. Docili intorno ad una Forza oscura per tutto il tempo ancor graviteranno.
Ma della vita l'indice è la noia lenta e fra lenti battiti l'ingoia tosto l'ignoto che ci è tomba e culla.
Pur quando guida il dito dell'Amore o del Dolore sul quadrante l'ore, l'attimo è tutto ed una vita è nulla.
Vi schierate così, sotto la nave cristïana, sui plinti alti, o confitte inegualmente al suol, colonne invitte di un prepotente impero, or fatte schiave.
Greco scalpello forse da le cave d'orïente vi svelse, e pose, ritte a l'aria e al sole: or fra le turbe afflitte del Galileo v'accascia un'ombra grave...
Così, gettato il giogo del fratello, l'uomo, ch'esalta la Fortuna alterna, le campagne di lui, le case gode;
non senza farsi un Dio, cui volge a lode la propria gioia e l'abiezion fraterna: e il medesimo altare è per suggello.
Gocce di sangue? È l'alba, mentre torno al lavoro. Le screzïò d'argento sul marciapiede il ghiaccio. Uno sgomento m'assale. Tutto ancora tace intorno.
L'oro, l'amore, il vino?... Era il ritorno della belva primeva. Ed un momento guizzò un'arma, sparì. Non un lamento forse. Silenzio ed ombra. Ed ora è giorno.
Perciò la Vita con tanto dolore s'orïentò, salì verso la Mente? Ecco, l'annienta un attimo d'oblio.
Altri guarda e sen va. M'affretto anch'io... Ricche arterie ha la Vita e non risente di due stille cadute dal suo cuore.
—«Vuoi obliare? Dietro te gigante t'inquieta il passato. Oh non sognare, tu vorresti, andar naufrago nel mare dell'essere; non viver che l'istante!
Ebben, segui il tuo sol come le piante, chiudi le ciglia quando il sol dispare; fuggi gli umani, ama le cose ignare... Dormi. Ed ecco un liquore inebbrïante...»
—No! Ricordare! Io sono la memoria degli esseri che fui. E mi commove tutto l'eterno ad ogni batter d'ore.
Vivere, quanto l'Uomo: esser la storia, la coscïenza della Terra, e altrove portar me stesso e 'l ricordo e 'l dolore!
Vaporava la Terra: abbrividenti profili alzava incontro ai soli occidui e caotiche forme negli assidui sforzi espelleva, esseri incerti, lenti.
A stento si scioglieano dai residui del limo grave. Indi foreste e armenti sorsero, e guizzi dentro l'acque e i venti, e l'armonia di liberi individui.
L'ultima forma che la Terra espresse l'opera proseguì. Architetture pensose trasse dai fianchi materni.
Fasci di nervi or trama e raggi tesse. E l'uom stupisce per le creature che fioriscon da lui nei maggi eterni.
È il corpo mio campo d'antiche sfide, come la terra dentro la caligine primeva. Forse qualche scaturigine di vita in me per sempre si recide?
Sotto ogni forma bella che al ciel ride l'uomo indaga, e l'afferra la vertigine. Luce in fondo l'idea. Dove ha l'origine? Un fermento la suscita o l'uccide.
Affrettan le agonie, le cose morte sgombrano per far adito ai viventi, indefessi operai del divenire.
Quando avverrà che domi l'uom quest'ire nemiche, e dolce viva, e l'addormenti sazio di giorni l'oblïosa morte?
L'uomo, re delle forme ultime, vuole dentro la terra approfondir l'indagine: assiduamente fruga la voragine che Dante ornò di sue divine fole.
Nel suol, come in vecchio albero, l'imagine simultanea degli evi scopre al sole; e nei fôri ove ruzza la sua prole, il passato si svolge in chiare pagine.
Così la Terra, per l'essere emerso ultimo dal suo grembo, apre le ciglia e scorge sè piccola, oh quanto! Eppure,
più vasto è il cielo e pieno di venture per la solare piccola famiglia in questo breve angolo d'universo.
Otto grandi fratelli in suo regime il Sole tien, che la sua lampa accese: lontani e ignoti: ora nel ciel sublime due, l'uno all'altro han le pupille intese?
Fratello, in te già mossero le prime forme di vita al padre sol protese? vegetasti, sentisti, alfin da l'ime profondità la chiusa anima ascese?
Forse già sei qual noi sarem domani, e indaghi dentro l'etere stellante con desiderio senza fine intenso,
accennando con segni non umani a questo piccol astro, radïante l'inappagata anima nell'immenso...
Parecchi fra questi sonetti vennero già pubblicati dal 1899
in qua su alcune riviste:
In memoria di F. De Amicis (Illustrazione Italiana, 1899).
Sul fiume, In memoria, Abbandonati, Su un orologio (Nuova Antologia,
16 giugno 1901). Bellezza femminea, L'iniziazione, Ella?,
Amanti, L'amica (Nuova Antologia, 16 marzo 1902). Villaggio
natìo, Circolo vitale, A uno straniero, I dissodatori, Bruto ultimo,
Garibaldi (Nuova Antologia, 16 gennaio 1903). Aer, Pan
(Riviera Ligure, 1903). Le forme, È nato!, In piedi!, Mosè,
Al Foro Romano, Lotta per la vita, L'uomo tragico, La morte
(Nuova Antologia, 1º gennaio 1905). L'astro morto, Marte
(Riviera Ligure, febbraio 1905).
Un breve poemetto, Nubi e sogni (Nuova Antologia, 1º giugno
1899) ed altre poesie composte dal 1899 al 1903 e non consentanee
al carattere generale di Homo l'autore raccoglierà in
una prossima edizione di In Umbra.
Si pubblica il 1º ed il 16 di ciascun mese
in fascicoli illustrati di circa 200 pagine ciascuno
ROMA
Direttore: MAGGIORINO FERRARIS DEPUTATO AL PARLAMENTO
La NUOVA ANTOLOGIA è la più antica e la più importante
Rivista italiana di lettere, scienze ed arti. Fondata
nel 1866, nel corso di quarant'anni, essa ha continuamente
accresciuta la sua diffusione in paese ed all'estero e rappresenta
il movimento del pensiero della Nuova Italia.
I 24 fascicoli della Rivista formano ogni anno sei grossi
volumi e costituiscono una ricca collezione letteraria, scientifica
ed artistica.
La NUOVA ANTOLOGIA è la Rivista delle famiglie distinte
e delle persone colte. Essa pubblica regolarmente romanzi,
poesie, articoli critici e viaggi degli autori e delle
scrittrici più eminenti.
Alle più importanti questioni di politica interna ed estera
ed ai problemi economici e sociali del tempo, la NUOVA ANTOLOGIA
dedica studii ed articoli dovuti alla penna dei più
autorevoli Senatori, Deputati e Professori d'Università. Questi
articoli, che sono una vera specialità della Rivista, sollevano
sempre le più larghe discussioni nella stampa internazionale.
La NUOVA ANTOLOGIA è indispensabile a tutte le persone
che aspirano ad avere una cultura moderna e che amano
seguire il movimento del pensiero italiano ed estero.
I principali articoli d'arte, di storia e di viaggi sono riccamente
illustrati.
AMMINISTRAZIONE E DIREZIONE ROMA
NOTE DI TRASCRIZIONE
Ovvi errori di punteggiatura sono stati corretti;
Sia il termine "desiosi" sia il termine "desïosi" vengono utilizzati nel testo;
Sia il termine "folgori" sia il termine "fólgori" vengono utilizzati nel testo;
Sia il termine "generazioni" sia il termine "generazïoni" vengono utilizzati nel testo;
Sia il termine "inquieti" sia il termine "inquïeti" vengono utilizzati nel testo;
Sia il termine "italiano" sia il termine "italïano" vengono utilizzati nel testo;
Sia il termine "oblìo" sia il termine "oblio" vengono utilizzati nel testo;
A pag. 20, la preposizione "Nel" è corretta in "nel" all'interno del titolo della poesia "Guidarello";
Altre inconsistenze grammaticali nei titoli delle poesie sono mantenute come nel testo originale;
A pag. 40, il termine "lavorio" è mantenuto (Sotto un tessuto come di corolle tepide un lavorio profondo sento); A pag. 125, "V'e" è un errore di stampa corretto con "V'è" (V'è nella corona immensa del Sole);
A pag. 133, i puntini di sospensione sono aggiunti al titolo della poesia "Hodie mihi...";
A pag. 134, il numero di pagina de "La cortigiana e l'apostolo" è stato corretto;
A pag. 136, l'articolo "la" è stato aggiunto al titolo della poesia "Lotta per la vita".
Le rimanenti correzioni fatte sono indicate da linee punteggiate sotto le stesse.
Scorrendo il mouse sopra la linea punteggiata, il testo originale apparirà.
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